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A Pietro Gargano, allora caposervizio de Il Mattino, avevano insegnato che i giornali, il giorno dopo, finiscono per diventare ‘cuoppi per le olive’. Una verità disarmante sulla natura effimera della carta stampata, destinata a perdere valore nel giro di poche ore. Ma il 26 novembre 1980, quella regola fu infranta da un titolo che divenne immortale: FATE PRESTO. Nato come un grido di disperazione e richiesta d’aiuto per le popolazioni colpite dal terremoto in Irpinia, quel titolo non si limitò a raccontare un dramma. Grazie alla visione del gallerista Lucio Amelio e al genio di Andy Warhol, si trasformò in una celebre opera d’arte, un simbolo universale capace di mantenere vivo il ricordo di una tragedia e di una straordinaria forza collettiva.”

Fate Presto: il titolo che divenne un grido di aiuto e un’opera d’arte

Era il pomeriggio del terzo giorno dopo il terremoto che aveva sconvolto l’Irpinia e gran parte della Campania. Nelle stanze di via Chiatamone 65, sede storica de Il Mattino, l’aria era satura di tensione, fatica e senso del dovere. I giornalisti e i redattori lavoravano senza sosta, intenti a raccontare una tragedia che si rivelava sempre più apocalittica, ora dopo ora. Tra loro, Pietro Gargano, caposervizio con lo sguardo lucido nonostante la stanchezza, suggerì quelle due parole che avrebbero segnato la storia del giornalismo italiano: Fate presto.

Non era solo un titolo. Era un grido di allarme, una richiesta disperata rivolta al Paese intero. Quel giorno, il direttore Roberto Ciuni  accolse il suggerimento di Gargano e lo trasformò in un manifesto. Due parole semplici, nette, che campeggiavano su una prima pagina curata con dedizione maniacale. La scelta del carattere, della disposizione del testo, del colore: tutto contribuiva a dare forza e urgenza a quel messaggio, affinché risuonasse oltre i confini della Campania.

In quegli anni, fare giornalismo era un’impresa ben diversa da oggi. Non c’erano smartphone, social media o breaking news istantanee. Ogni aggiornamento arrivava con il fiatone, dopo telefonate interminabili o appelli lanciati via radio. Le notizie erano frammenti di una realtà che si componeva lentamente, tra le difficoltà delle comunicazioni e le strade impraticabili.

La firma dell’articolo che accompagnava quel titolo fu affidata a Carlo Franco, una delle grandi penne del giornalismo napoletano, recentemente scomparso, ma il vero protagonista rimase quel grido in prima pagina: FATE PRESTO.

La storia di quel titolo è la memoria viva di un momento in cui giornalismo, l’arte e la storia si sono incontrati per non dimenticare

Quelle due parole non solo colpirono l’Italia, ma si trasformarono in un simbolo universale grazie all’intuizione del gallerista Lucio Amelio. Amelio, figura cardine dell’arte contemporanea napoletana, volle dare voce e forma a quella tragedia attraverso l’arte.

Gallerista e mecenate napoletano, ebbe l’intuizione che quella tragedia e il suo eco mediatico potevano e dovevano trovare una nuova vita attraverso il linguaggio universale dell’arte. Era un uomo visionario, capace di leggere nel caos del mondo contemporaneo segni da trasformare in espressioni artistiche. Fu proprio questo spirito che lo spinse, pochi mesi dopo il terremoto, a volare a New York e a raggiungere Andy Warhol nella sua leggendaria Factory.

Nacque così Fate Presto, un trittico imponente che amplifica l’urgenza e il dolore di quel titolo. Inserito nella collezione TerraeMotus, l’opera non solo racconta il dramma del terremoto, ma restituisce al giornalismo il suo potere di eternare eventi destinati, altrimenti, a scivolare nel tempo.

Quella che era una pagina effimera di un quotidiano divenne un’icona, un’opera esposta ancora oggi nella Reggia di Caserta, testimone di una tragedia che ha segnato la storia del Sud Italia e del Paese intero.

Quell’eco di dolore e speranza, nato nelle stanze di via Chiatamone, ha superato confini e generazioni. Fate presto non è più soltanto un titolo: è la memoria viva di un momento in cui il giornalismo, l’arte e la storia si sono incontrati per non dimenticare.

 

Amelio conosceva già Warhol, avendolo incontrato a Napoli qualche anno prima, quando l’artista americano aveva visitato la città su suo invito. Ma questa volta l’incontro assumeva un significato diverso: non si trattava di un semplice scambio culturale, ma di una richiesta che univa arte, cronaca e storia.

Lucio portò con sé una mazzetta di ritagli di giornali italiani, tra cui spiccava quella prima pagina de Il Mattino del 26 novembre 1980. Il titolo Fate Presto dominava in grassetto, affiancato dalle immagini devastanti del terremoto. Amelio spiegò a Warhol il significato di quelle due parole: non solo un appello urgente, ma il simbolo di una terra ferita che chiedeva di non essere dimenticata.

Warhol, maestro nel trasformare la cultura pop e i simboli mediatici in opere d’arte, fu immediatamente colpito da quella pagina. Per lui, i titoli di giornale erano molto più che semplici notizie: erano icone del nostro tempo, capaci di cristallizzare le emozioni collettive. Decise di accettare la proposta di Amelio e di lavorare su quella prima pagina, trasformandola in un trittico monumentale.

Nelle settimane successive, Warhol sperimentò formati, colori e tonalità per amplificare il messaggio originario. Rimase fedele alla composizione grafica del quotidiano, ma ne enfatizzò l’impatto visivo con i suoi tipici contrasti cromatici, rendendo le lettere ancora più penetranti, quasi urlanti. Il risultato fu Fate Presto, un’opera che non solo raccontava il disastro naturale, ma che si faceva portavoce di una sofferenza universale, capace di trascendere i confini geografici e culturali.

Amelio e Warhol si resero conto che quel titolo aveva ormai assunto una dimensione iconica: non era più soltanto il grido di una popolazione colpita dal sisma, ma un appello per l’intera umanità a reagire di fronte alle tragedie. Il trittico divenne uno dei pezzi centrali della collezione TerraeMotus, voluta da Amelio per raccontare, attraverso l’arte, il sisma e la forza rigeneratrice della cultura.

L’incontro tra Lucio Amelio e Andy Warhol  consolidò un legame unico tra l’artista americano e Napoli, una città che Warhol celebrò successivamente con la sua celebre serie Vesuvius. Ma Fate Presto rimane l’opera che più di ogni altra incarna l’incontro tra giornalismo, arte e impegno sociale, ricordando al mondo che dietro le tragedie ci sono sempre voci che chiedono di essere ascoltate.

La mostra TerraeMotus, ideata e curata da  Amelio, nacque come un progetto ambizioso, capace di unire le voci di alcuni tra i più grandi artisti contemporanei per riflettere sul dramma del terremoto del 1980. Presentata ufficialmente nel 1984 nella splendida cornice di Villa Campolieto a Ercolano, la collezione contava inizialmente le opere di 66 artisti internazionali. Il progetto rappresentava un’operazione culturale unica nel suo genere: non un semplice omaggio o una commemorazione, ma un dialogo tra l’arte e la forza distruttiva e rigeneratrice della natura.

Tra i protagonisti della collezione figuravano nomi di spicco come Robert Mapplethorpe, Mimmo Paladino, Tony Cragg, Enzo Cucchi, Luciano Fabro, Gilbert & George, Gerhard Richter ed Emilio Vedova. Ogni artista offrì la propria interpretazione del sisma, trasformando le macerie fisiche e morali in metafore visive che spingevano a una riflessione collettiva sulla fragilità dell’esistenza.

Il trittico Fate Presto di Andy Warhol divenne il manifesto della mostra, grazie alla sua capacità di sintetizzare la potenza del titolo di quella prima pagina in un grido visivo universale. Insieme a Vesuvius, che Warhol realizzò qualche anno dopo, l’opera testimonia il forte legame tra l’artista americano e la terra campana.

TerraeMotus fu concepita come una collezione itinerante: dopo il debutto a Villa Campolieto, la mostra viaggiò per alcune delle principali città europee, attirando l’attenzione di critici e pubblico. Nel 1994, un decennio dopo la sua prima esposizione, la collezione trovò una sede permanente nella Reggia di Caserta, all’interno degli appartamenti storici. Oggi, TerraeMotus è una delle raccolte d’arte contemporanea più prestigiose al mondo, un simbolo di resilienza culturale e di rinascita attraverso la bellezza.

Con il titolo H7 — dove l’H simboleggia la scossa tellurica (Heliotremor) e il 7 rappresenta l’intensità distruttiva sulla scala Mercalli — il progetto voleva anche sottolineare la stretta connessione tra l’arte e la scienza, invitando a una lettura più profonda della catastrofe. Le opere, ognuna diversa per tecnica e linguaggio, convergono nel racconto di un evento che non appartiene solo alla memoria di una regione, ma all’intera umanità.

Lucio Amelio riuscì così a trasformare il lutto in creazione, dando vita a una collezione che continua a emozionare e interrogare, ricordando che l’arte è uno strumento potentissimo per comprendere e superare il dolore.

In un mondo dove le notizie spesso si consumano in pochi istanti tra i flussi incessanti di notifiche, Fate Presto ci impone di rallentare e riflettere. È un richiamo a non dimenticare il valore della vita e l’importanza di non lasciare indietro nessuno, soprattutto di fronte alle tragedie che ancora oggi scuotono le fondamenta delle nostre comunità.

Trasformato in arte da Andy Warhol, quel titolo si è svincolato dalla sua temporalità, trovando una nuova dimensione in cui non solo racconta un dramma passato, ma diventa simbolo di ogni urgenza collettiva: dall’emergenza climatica alle crisi umanitarie. È il grido di chi chiede di essere ascoltato, di chi spera che la solidarietà non sia mai un ricordo, ma un impegno quotidiano.

E così, ancora oggi, a distanza di 44 anni, quelle lettere maiuscole gridano dalle tele monumentali, scuotendo la coscienza di chi le guarda. Fate Presto non appartiene solo alla storia dell’Irpinia o alle stanze di un museo: è un messaggio per tutti noi, un monito che fa pensare, riflettere e, si spera, agire. Anche dopo 44 anni, è una voce che fa rumore, più attuale che mai.

 

 

La mostra: https://reggiadicaserta.cultura.gov.it/terrae-motus-40-anni/

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