Il Dott. Giorgio Rossi non è solo un importante imprenditore, che ha saputo creare aziende come la Erremme Italia – che ha varcato i confini nazionali per affermarsi a livello globale – e brand iconici del fashion quali “Norton & Wilson”, rilanciare il marchio “Ritz Saddler” o riportare in mani italiane la catena di grandi magazzini del lusso “Coin”.
La storia di quest’uomo, al di là degli innegabili successi professionali, sa di forza, coraggio e determinazione. Partendo da un negozio di tessuti a Treviso, ha cavalcato ogni cambiamento, seguendo sempre le proprie passioni con grande caparbietà e ha saputo affrontare i momenti di crisi con dignità e vigore, forte degli insegnamenti e dei valori importanti assimilati in casa sin dall’infanzia.
Valori che oggi sembrano superati, ma che invece ancora fanno la differenza nello stabilire la grandezza e la profondità di una persona, capace anche di mettere da parte il proprio successo personale per il bene delle persone che ama.
Ma andiamo con ordine…
La sua carriera parte da Treviso e affonda le proprie radici nell’attività paterna.
Era il 1973 e, dopo aver conseguito la maturità classica, mi ero iscritto all’Università Ca’ Foscari di Venezia, alla facoltà di Economia e Commercio. Avevo iniziato con grande entusiasmo questo nuovo percorso e sostenevo gli esami nei tempi prefissati e con buoni risultati. Tuttavia la tentazione di misurarmi nel lavoro di mio padre, che possedeva un prestigioso negozio di tessuti in centro a Treviso (in Via XX Settembre), l’”Alta Moda Tessuti” e di passare le giornate in azienda era sempre più forte. Per oltre 50 anni la nostra è stata tra le attività più importanti della città e ha rappresentato al meglio il gusto discreto e l’eleganza raffinata di quei tempi.
Le discussioni e i contrasti con i miei genitori erano all’ordine del giorno, perché non volevano assolutamente che io fossi distratto dall’impegno universitario; ma evidentemente il DNA non mente! La mia grande passione per i tessuti, per i colori e per gli abbinamenti mi scorreva nel sangue e io l’avevo assorbita osservando il papà, nelle poche occasioni in cui mi era concesso seguirlo nel suo lavoro. Per me era incomprensibile, allora, che i miei genitori ostacolassero il mio sogno…Non avevano fatto i conti tuttavia con la mia ostinazione e, alla fine, li presi per sfinimento.
Strappai il loro assenso con la promessa di portare avanti con regolarità i miei studi, arrivando a quel fatidico pezzo di carta a cui tanto tenevano. Quando assunsi questo impegno ero in buona fede e le mie intenzioni erano serie, ma come purtroppo succede spesso, le cose non andarono come avrei voluto e il corso della mia vita cambiò: gli impegni erano tanti e il coinvolgimento nell’attività divenne tale che, a pochi esami dalla fine, quando intravedevo vicinissimo il traguardo, fui costretto a interrompere gli studi, restando iscritto come fuori corso.
Non l’avrei mai pensato, ma il mio senso di colpa non mi dava tregua, m’inseguiva e non mi dava modo di essere sereno e soddisfatto di quello che facevo. Solo quando, dopo diversi anni e tante vicende più o meno felici, riuscii a laurearmi, mi sentii finalmente libero da quel peso e totalmente realizzato. Nel frattempo però avevo messo le basi della mia vita da imprenditore…
Cosa rendeva “Alta Moda Tessuti” diversa e speciale?
La sua notorietà era dovuta alla ricercatezza delle stoffe, all’esclusività delle sue vetrine, più volte premiate nei concorsi nazionali e al personale impeccabile e discreto.
La selezione e la formazione dei collaboratori era seguita con grande attenzione: tutti indossavano abito scuro, camicia bianca e cravatta ed erano preparati ad accogliere una clientela internazionale di alto livello.
Nell’immediato dopoguerra, e negli anni successivi, non era comune in una città di provincia trovare un negozio di questo tipo, in grado di competere con Galtrucco e Valli di Milano, Mincuzzi di Bari e Niceta di Palermo. Era un’attività di medio-grandi dimensioni, che dava lavoro a più di 25 dipendenti, oltre agli impiegati.
Si sviluppava su tre piani, con arredi di firma, pareti di marmorino e due imponenti lampadari di Venini a canne piene, disegnati dall’architetto Carlo Scarpa.
Varcare la soglia di “Alta Moda Tessuti” era come entrare in un sogno meraviglioso, pieno di bellezza e di cultura, fulcro di mondanità, non solo del centro cittadino (Treviso era più conosciuta e apprezzata allora di quanto lo sia oggi), ma anche italiano. Questo fu il capolavoro di mio padre, che grazie a ciò ricevette numerosi riconoscimenti, tra i quali l’”Ape d’oro”, un premio assegnato agli imprenditori che si distinguevano a livello nazionale nel mondo del commercio e dell’industria.
Quelli erano anni dal sapore antico e magico…
Assolutamente sì: era il periodo in cui Cortina d’Ampezzo, la regina delle Dolomiti, gareggiava in bellezza e ricercatezza con St. Moritz e Venezia era meta di personaggi famosi, che erano anche i nostri clienti, come i Principi Ira von Fürstenberg e Alfonso di Hohenlohe-Langenburg e di attori come Vittorio Gassmann, Gastone Moschin, Ugo Tognazzi.
I nostri collaboratori raccontavano di aver servito Henry Fonda, Liz Taylor (che era ospite del barone Giorgio Franchetti), Elsa Vazzoler, la soprano Toti Dal Monte – con cui il papà si intratteneva spesso parlando di musica e di lirica, il tenore Mario Del Monaco (amico di vecchia data di mio padre, che non mancava mai di fargli visita ogni volta che veniva in città) e tante altre celebrità del mondo dello spettacolo, dell’arte, della cultura e dell’imprenditoria. È in questo contesto così stimolante che ho avuto il privilegio di muovere i primi passi della mia, oramai, lunga carriera ed è stato allora che ho sviluppato la mia capacità di saper cogliere e scegliere ciò che è bello al di là delle mode passeggere.
Allora la fiducia e la lealtà avevano un peso fondamentale nella società…e un furto che avete subito ve ne ha dato la dimostrazione concreta.
Ogni volta che ripenso a questo episodio, che il papà da piccolo mi raccontava, mi rendo conto che valori così importanti non fanno più parte della nostra vita quotidiana. Ed è questa una triste considerazione, ahimè! Siamo nell’estate del 1944, quella notte pioveva a dirotto, il fragore dei tuoni e il bagliore dei lampi squarciavano un cielo buio senza luna. Erano sensazioni facilmente confondibili con il rumore sinistro dei bombardamenti, che avevano distrutto Treviso alcuni mesi prima causando migliaia di morti.
Mio padre sentì suonare il campanello con insolita insistenza e si recò sul balcone per vedere chi fosse. Sotto la pioggia battente, scorse un uomo in bicicletta che lo invitava a vestirsi di corsa e correre con lui perché l’ “Alta Moda” aveva subito un furto. In un battibaleno giunsero in Piazza della Borsa, ancora ricoperta dalle macerie del bombardamento: nel muro perimetrale del negozio era stato praticato un grande foro, che aveva permesso ai malviventi, una squadra attrezzata con camion, di svuotare tutti gli scaffali e gli armadi dei magazzini, in cui prima erano disposti ordinatamente i tessuti. Papà venne travolto dallo sconforto e, dalla disperazione: anni e anni di sacrifici erano stati vanificati in poche ore…!
Trascorsa la notte, in uno stato di prostrazione totale, al mattino trovò il coraggio di andare dai suoi zii (gli unici economicamente in grado di supportarlo), a cui raccontò l’accaduto, implorando il loro aiuto, con la promessa di restituire il tutto con gli interessi il prima possibile. La risposta che ricevette per lui fu una doccia fredda: senza preamboli gli dissero che i momenti erano a dir poco drammatici, che non se la sentivano di concedergli il prestito e che gli consigliavano invece di chiudere l’attività per dedicarsi a qualcosa di meno rischioso. Peggio di così non poteva andare! Mio padre era distrutto e non poteva accettare l’idea di arrendersi rinunciando a tutto ciò per cui aveva lottato e lasciando senza lavoro i suoi fedeli collaboratori, che per lui erano una seconda famiglia.
Quello che avvenne nei giorni successivi ha dell’incredibile: una mattina arrivarono due carri ferroviari trainati dai cavalli stipati di tessuto in rotoli e in barchette. Provenivano dalla casa di spedizione Astolfo ed erano destinati all’”Alta Moda Tessuti”. Presto si scoprì che alcuni dei nostri fornitori avevano messo insieme un assortimento completo di sete, lane, chiffon, rasi e altri preziosi tessuti, che ci avrebbero permesso di superare quel drammatico momento e di affrontare la stagione autunnale, da sempre la più importante, perfettamente riforniti.
Appena ripresosi dallo stupore papà telefonò a uno di loro, il fondatore della Mantero di Como, con il quale aveva sempre avuto un rapporto reciproco di grande fiducia, stima e amicizia e Mino (diminutivo di Massimiliano) gli disse: “siamo tutti con te! Sei sempre stato un cliente corretto e vogliamo aiutarti in un momento di grossa difficoltà. Questo è ciò che siamo riusciti a recuperare nel nostro distretto, a Biella e qualcosa anche all’estero (non dimentichiamo che eravamo ancora in guerra, anche se ormai la sorte della nostra nazione era tristemente segnata). Non preoccuparti, ci pagherai col tempo”.
Mio padre restò senza parole, ringraziò e si ripromise di ricambiare il favore in futuro. Seguirono settimane frenetiche di lavoro e, nel giro di pochi mesi, tutti i debiti contratti vennero saldati fino all’ultima lira, molto in anticipo rispetto alle previsioni. Negli anni successivi, quelli del massimo sviluppo del negozio, papà impose ai suoi compratori di acquistare sempre qualcosa da quei fornitori amici, anche se non avessero trovato conveniente la loro offerta. Sulla fiducia, sulla lealtà e sulla riconoscenza si possono ricostruire le fortune: l’ho sempre ricordato ai miei collaboratori nel corso della mia vita.
Gli anni ‘70 e il cambiamento: dalla “drapperia” all’industria delle confezioni in serie.
Agli inizi degli anni ‘70 il mercato del settore tessile in Italia subì un’evoluzione epocale, ovvero il definitivo tramonto della vendita dei tessuti (n.d.r.. drapperia) da uomo al dettaglio.
I pochi sarti rimasti, si attrezzarono per fornire direttamente il tessuto ai loro clienti e i piccoli laboratori di confezioni in serie, nati dopo la fine della seconda guerra mondiale, seguendo l’esempio di quanto stava avvenendo negli Stati Uniti, si trasformarono in vere e proprie industrie in grado di produrre migliaia e migliaia di abiti da uomo.
Nacquero così i primi negozi di confezioni maschili e anche alcune grandi catene presenti in tutto il territorio nazionale come la Marus o i Fusodoro. Questo cambiamento fu rapidissimo e, in meno di dieci anni, la richiesta di capispalla e pantaloni da uomo venne soddisfatta quasi interamente dall’industria delle confezioni in serie.
La Erremme S.p.A.: la storia di un enorme successo trasformatosi in una profonda crisi aziendale.
Nel 1973, proprio sull’onda del cambiamento sopra citato, mio padre, creò un’azienda di produzione nel settore dell’abbigliamento, a cui diede il nome di Erremme S.p.A (acronimo del suo nome: Rossi Massimiliano), la cui sede era un ampio immobile alle porte di Treviso, con numerosi uffici e un negozio aziendale. Grazie a importanti investimenti la Erremme S.p.A. aveva le carte in regola per diventare leader nella realizzazione dei pantaloni da uomo: vantava infatti uno dei primi reparti di taglio dell’epoca, dotato di stenditori automatici e di tapis roulant, che servivano per trasportare le falde di tessuto stese.
Tutti i macchinari erano stati rinnovati e comparivano nelle linee di cucito le prime unità automatiche per la cucitura delle gambe dei pantaloni. Il programmatore interno, un ingegnere che gestiva un sofisticato centro elaborazione dati, era riuscito a mettere a punto soluzioni innovative nel settore tecnico – produttivo e in breve tempo il personale superò i 130 addetti, in gran parte donne. Io allora avevo poco più di vent’anni e cominciavo a occuparmi di definire lo stile dei prodotti e di curare i rapporti con gli agenti e la clientela. Arrivarono in quel periodo anche i primi fax, all’epoca un’innovazione: era un’emozione unica passare e ripassare per il centralino per vedere arrivare, in tempo reale, gli ordini dei rappresentanti!
Le vendite andavano a gonfie vele perché il prodotto era ben confezionato e la lunga tradizione di “Alta Moda” nel mondo dei tessuti era il nostro miglior biglietto da visita. Ho avuto in quegli anni la fortuna di fare molti incontri interessanti e di veder crescere, quasi dal nulla, marchi e aziende divenuti in seguito protagonisti indiscussi nel mondo della moda, con cui ho avviato proficui rapporti, che sono poi sfociati in collaborazioni creative e arricchenti per entrambe le parti.
Nel 1979 il fatturato della Erremme S.p.A. superava i dieci miliardi di vecchie lire. Sotto il profilo commerciale era senza dubbio un grande successo, a cui purtroppo però non corrispondevano altrettante soddisfazioni sul versante della redditività. Col senno di poi devo ammettere che da parte mia e di mio padre pagammo la mancanza di esperienza nella conduzione di un’impresa industriale, ma certamente fu l’incapacità dei nostri manager a determinare il successivo dissesto. Noi avevamo puntato tutto su di loro, che invece si rivelarono ciechi e sordi di fronte alla realtà, incapaci di prevedere la tempesta che si stava profilando all’orizzonte e che si sarebbe inevitabilmente abbattuta sulle nostre aziende e sulle nostre vite.
La dignità e l’onore come risposta alla crisi.
Agli inizi degli anni ‘80, l’indebitamento della Erremme S.p.A. era diventato insostenibile: allora i tassi di interesse superavano abbondantemente il 20 % e le banche ci avevano concesso i prestiti sulla base delle garanzie personali e della stima che provavano nei confronti di mio padre, senza fare un’analisi dei bilanci e valutare il piano industriale.
Eravamo entrati in una spirale negativa irreversibile e, dato che i guai non vengono mai da soli, anche l’ “Alta Moda Tessuti”, che era sempre stata la nostra gallina dalle uova d’oro non dava più i consueti risultati perché il mercato stava cambiando velocemente. La vendita del tessuto al metro aveva subito in quegli ultimi anni un vero e proprio crollo, erano sparite quasi tutte le sarte e la clientela si era rivolta all’acquisto dei capi già confezionati. Di conseguenza i costi fissi per il personale e per la gestione del negozio non erano più sostenibili. Come ciliegina sulla torta, una serie di investimenti, rivelatisi sbagliati, complicò definitivamente una situazione che oramai era già critica.
I vari consulenti interpellati sostenevano che fosse necessario un intervento drastico: dismettere l’intero reparto produttivo, affidando le lavorazioni a laboratori esterni (in modo da ridurre i costi e gli investimenti) e chiudere il negozio, licenziando i collaboratori.
Mio padre (che nella foto è ritratto mentre legge il giornale nel giardino di casa) non riuscì a comprendere l’essenzialità di queste scelte e si rifiutò di lasciare per strada i suoi dipendenti, che rappresentavano la sua risorsa più preziosa e un pezzo di vita, senza contare che, a differenza di quanto avviene oggi, il clamore che ne sarebbe derivato lo avrebbe profondamente ferito perché avrebbe irrimediabilmente offuscato la sua immagine.
Dopo mesi di interminabili ed estenuanti discussioni, si decise di mettere in vendita una ad una tutte le proprietà della famiglia, anche quelle non direttamente coinvolte da fidejussioni o garanzie. L’intento era quello di rifinanziare le nostre attività e ridurre l’esposizione debitoria con le banche.
Fu stilato un piano di dismissioni concordato con gli istituti di credito e il tribunale di Treviso ci concesse l’amministrazione controllata per 24 mesi. Fu nominato un commissario giudiziale, che dimostrò grande comprensione e un’umanità fuori dal comune. Durante la riunione con le banche per stabilire modi e tempi di vendita di tutti i nostri immobili, mio padre affermò: “i soldi si possono perdere e con la stessa facilità si possono anche rifare, ma la dignità e l’onore una volta persi è ben difficile riconquistarli”.
Il suo sguardo mentre pronunciava queste parole era rivolto verso di me: ci teneva a farmi capire che, con quella decisione, intendeva salvare il suo nome, ma principalmente quello che sarebbe stato il mio futuro d’imprenditore o di professionista, a seconda dell’attività che avessi deciso di intraprendere.
Norton & Wilson e la sua rinascita come imprenditore. Ci racconti com’è andata…
Era l’estate del 1985. In un tardo pomeriggio di una giornata afosa andai a trovare il prof. Ferruccio Bresolin, insigne economista e professore alla Ca’ Foscari, che mi accolse gentilmente nel suo studio. Non avrei mai immaginato che in quella stanza, elegante e austera, avremmo trascorso momenti fondamentali per la mia vita negli anni a venire. La nostra conversazione fu franca: lui era al corrente delle difficoltà che la nostra azienda stava attraversando e si rese disponibile a darmi il suo aiuto per la stesura della mia tesi di laurea, manifestando un sincero interesse per l’evoluzione che il settore tessile aveva subito negli anni.
Fu proprio in quella occasione che gli anticipai, in modo vago, quali fossero i miei progetti per il futuro: avevo in mente di prendere la laurea velocemente (cosa che feci) e di continuare a fare l’imprenditore nel mio settore, creando però un prodotto un po’ diverso, che identificasse uno stile vivace, legato alla tradizione americana, con suggestioni bostoniane e con i colori freddi e siderali del Long Island, nel quale un certo tipo di uomo, nel tempo libero, si sarebbe potuto ispirare. In pratica quel giorno, che non dimenticherò mai, rivelai al prof. Bresolin il sogno nel cassetto di creare un marchio tutto mio, senza sapere che presto sarebbe diventato realtà. Qualche mese più tardi costituii una nuova società, nella quale ricoprivo il ruolo di Amministratore Delegato, che rilevò le attività della vecchia Erremme S.p.A., in modo da potermi avvalere delle mie vecchie maestranze e dei collaboratori che mi erano rimasti accanto nel momento della difficoltà.
Non lo sapevo ancora, ma era iniziata una nuova avventura che avrebbe segnato profondamente gli anni a venire, regalandomi grandi soddisfazioni e traguardi inaspettati. Mantenni la sede nel vecchio stabilimento della Erremme S.p.A. e conservai la stessa ragione sociale con l’aggiunta del sostantivo “Italia”, perché ero orgoglioso di affermare la provenienza dei miei prodotti nel mondo. Incaricai una delle più importanti agenzie di pubblicità e comunicazione di elaborare la grafica del marchio e di lavorare sul packaging. Nacquero così la “Erremme Italia” e il marchio “Norton & Wilson”, che qualche anno più tardi Luciano de Crescenzo (famosissimo scrittore, filosofo, attore e regista), in seguito divenuto un caro amico, durante la presentazione della mia collezione al famoso caffè Paszkowski di Firenze, definì “autentico stile country di Norton & Wilson”.
Gli anno d’oro della “Erremme Italia” e l’apertura internazionale, con un occhio rivolto a Oriente.
Alla fine degli anni ‘80 il periodo peggiore era ormai alle spalle e la “Erremme Italia” viveva una fase di grande espansione. Il nuovo marchio era decollato ed era presente in oltre 1500 negozi nel mondo. Il fatturato aveva superato i 40 miliardi di vecchie lire e la storica sede di Treviso, di oltre 4.000 mq, era diventata insufficiente per contenere i magazzini di tessuti, accessori e capi finiti oltre agli uffici direzionali, tanto che vennero presto attrezzati due grandi magazzini di circa 12.000 mq, appena fuori città, per lo stoccaggio dei capi finiti e la logistica.
La produzione delle giacche e dei capispalla era affidata a una grossa realtà di Belluno (n.d.r. la “Industrie Confezioni Belluno”) con oltre 150 dipendenti diretti che, nel giro di un paio d’anni, venne rilevata da Erremme Italia ed entrò a far parte del gruppo. Nel 1988, grazie alla continua crescita di Norton & Wilson, rilevammo anche uno storico marchio di produzione di camicie da uomo con un organico di oltre 200 dipendenti. Eravamo inoltre tornati ad avere il nostro spazio espositivo al “Pitti Uomo” di Firenze (una delle più importanti e iconiche manifestazioni, a livello mondiale, per quanto riguarda l’abbigliamento e gli accessori maschili), in una posizione di rilievo nella splendida Fortezza da Basso. L’ampio stand era stato progettato da un noto architetto su mie precise indicazioni e la mia testa ribolliva come un vulcano alla ricerca di qualcosa che non fosse banale o scontato: il giorno precedente a ogni apertura, dopo che i nostri tecnici e arredatori avevano ultimato l’allestimento con le luci, i mobili e le piante, era dedicato interamente al prodotto, che andava presentato e disposto nel modo migliore per esaltarne le caratteristiche.
Mi sono sempre interessato personalmente a ogni singolo dettaglio del mio lavoro, non per una forma di perfezionismo, ma per quella passione genuina che nasce dall’amore per ciò che fai. Nella mia testa ho sempre paragonato “il Pitti” alla prima di un film, perché anche in una casa di moda ogni stagione, ogni uscita di campionario, ogni debutto segna l’inizio di un’avventura il cui esito dipende dall’accoglienza del pubblico. Il primo negozio monomarca in Giappone venne aperto proprio a seguito di una visita nel nostro stand al Pitti, dei dirigenti di una delle più importanti organizzazioni di distribuzione di abbigliamento del Sol Levante.
Si trattava di una location nel lussuoso quartiere di Ginza, a Tokio: eravamo in una delle più belle posizioni della città, all’interno di un imponente centro commerciale. Concedemmo ai loro architetti di reinterpretare in chiave orientale l’immagine del frontone che campeggiava negli altri nostri punti di vendita e questa novità venne accolta dalla clientela con particolare entusiasmo. Nel giro di due stagioni inaugurammo almeno una decina di boutique monomarca in quartieri esclusivi di Tokio, Yokohama, Kōbe, Osaka e altre grandi città del Giappone. Eravamo sempre presenti sulle pagine delle più prestigiose riviste di moda, con intere copertine dedicate al nostro marchio.
Questo turbinio di avvenimenti (in quegli anni divenni anche Presidente del “Gruppo Sistema Moda”) ci lanciò alla conquista di tanti altri nuovi mercati, allargando cosi gli orizzonti di “Norton&Wilson” oltre la nostra vecchia Europa e rafforzando in me la consapevolezza che stavo percorrendo la strada giusta.
Arriviamo all’acquisizione del marchio “Ritz Saddler”: una leggenda da indossare.
Tutto iniziò quando la mia segretaria mi passò una telefonata da Milano. Dall’altro capo del filo c’era Sanzio Zappieri, un nome molto noto nel mondo della moda, distributore per tutto il mondo di marchi tra i più conosciuti allora. Dopo i saluti e il solito scambio di opinioni sul panorama del settore e sull’andamento delle vendite, finalmente il mio interlocutore venne al punto chiedendomi se mi potesse interessare la “Ritz Saddler”, mitico marchio della famiglia Faccioli, famosa per aver distribuito e aver portato al successo, in Europa e nel mondo, brand come Louis Vuitton, Ballantyne, Clarks, Timberland, Ralph Lauren e tanti altri. Mi comunicò, in modo non ufficiale, che la licenza col gruppo di Alberta Ferretti era in scadenza ed era probabile che non venisse rinnovata. Mi lusingò dicendo che, tra una serie di probabili partner, ero il preferito perché avevo le caratteristiche giuste per raccogliere il testimone. A prescindere dal notevole impegno che la cosa avrebbe comportato, ritenni che si trattasse di un’opportunità che dovevo assolutamente cogliere e il tempismo giocava un ruolo fondamentale. Nel giro di pochi mesi la Ritz entrò a pieno titolo nella grande famiglia della nostra azienda, portando stimoli nuovi e un fermento creativo che finì per giovare a tutto il gruppo.
Tuttavia il processo d’integrazione si rivelò più difficile del previsto, anche a causa dei timori espressi dai miei dirigenti e dalla rete di vendita. Li avevo tutti contro, poiché ritenevano che l’inserimento di un altro marchio, soprattutto di quell’importanza, avrebbe sottratto mezzi ed energie alla Norton&Wilson, la cui crescita esponenziale e sorprendente richiedeva la nostra completa dedizione e notevoli investimenti. Inoltre il marchio “Ritz Saddler”, da sempre sinonimo di esclusività, da un po’ di tempo risentiva di una certa stanchezza e aveva bisogno di essere ripensato; ma quelle che agli atri apparivano come difficoltà, per me erano uno stimolo in più per impegnarmi a fondo in questa fantastica avventura. Ricordo ancora i vari incontri con Giorgio Faccioli (che creò il marchio nel 1946 e lo lanciò a livello mondiale), l’uomo che aveva saputo realizzare un mito nella moda del suo tempo: eravamo nella sede di Bologna, a Villa Impero, in una cornice che sembrava il set di un film. La maestosità di quegli ambienti riecheggiava la sontuosa atmosfera di un tempo perduto, a cui Faccioli si era ispirato per creare le sue collezioni. Tra di noi s’instaurò un’immediata simpatia poiché, per sensibilità e tradizione, avevamo lo stesso modo di concepire il lavoro. “La Ritz è una leggenda da indossare” mi disse con la voce rotta dall’emozione “una leggenda che narra di principi e di principesse, a cui la gente ha deciso di credere. La trama può essere bella o brutta e non importa se sia vera o falsa”. Io lo ascoltai e giurai a me stesso che mai avrei scordato quelle parole e che avrei saputo conservare la magia di quella storia.
Da sempre nutre una vera passione per le automobili. Cosa ama: la velocità, il controllo, il rischio?
La passione per i motori mi accompagna fin da quando ero bambino. Trascorrevo intere giornate a giocare con le macchinine disteso sul parquet di casa che, neppure a farlo apposta, formava riquadri alternati a seconda della tipologia di listelli di legno utilizzati che, nella mia fantasia, diventavano strade parcheggi e aree di manovra. In famiglia abbiamo sempre avuto delle auto eleganti e di sicuro anche questo aiutò a far crescere il mio interesse, sebbene non ricordo che mio padre fosse un vero appassionato; semplicemente amava le cose belle e si lasciava catturare da tutto ciò che lo affascinava. In particolare la mia attenzione è sempre stata rivolta alle auto d’epoca, e avendo avuto rapporti continui con l’Inghilterra per l’acquisto dei tessuti, ho avuto la possibilità di comprare vecchie Jaguar, Aston Martin, Triumph, ecc., con cui tornavo a casa guidandole attraverso la Francia o la Germania.
Con queste auto, che avevano almeno 40 anni, ho sfidato la sorte, le intemperie e la stanchezza. Sono state esperienze sorprendenti, fatte di solitudine assoluta e di libertà. Il piacere di perdermi per le strade del mondo e, soprattutto, nei miei pensieri, mi ripagava ogni volta della fatica, della tensione e dei rischi che correvo, come quando, per esempio, mi trovai in una zona del nord della Germania nel bel mezzo di una tempesta di neve. Ero alla guida di una Jaguar E- Type spider, bianca con la capote nera. La temperatura era scesa sotto zero e praticamente procedevo su una lastra di ghiaccio: improvvisamente i fari si spensero e rimasi al buio e al freddo. Per fortuna avvistai un distributore di benzina a poche centinaia di metri: quando scesi dalla macchina ero mezzo congelato e fui accolto da un gruppetto di camionisti tedeschi che, impietositi, mi prestarono un cappello e una coperta, offrendomi di salire a bordo di un loro tir la cui cabina era riscaldata. Trovarono anche un sistema ingegnoso per risolvere il problema della mia macchina, riparando il fusibile rotto con della carta stagnola.
Quando ero giovane la velocità e il rischio erano componenti fondamentali della mia vita e alimentavano la mia passione automobilistica. Posso ringraziare Dio che mi sia sempre andata bene, nonostante porti ancora i segni di qualche brutto incidente occorsomi. Oggi, per fortuna, mi appagano anche solo la bellezza e il rombo di un bel 6 cilindri di allora!
La notte in cui è diventato padre: un dolore atroce che si è trasformato in un atto d’amore immenso
Successe tutto in una notte, quella in cui mia sorella Paola e suo marito Giorgio persero la vita in un tragico incidente. Appena ricevuta la notizia, con il cuore spezzato, mia moglie Luisa (al mio fianco da tutta la vita) e io ci trasferimmo, per sempre, a casa loro. Lì ci attendevano due bambini che avevano bisogno di noi: Ernesto e Anna, i loro figli, i nostri nipoti, rispettivamente di 4 e poco meno di 1 anno. E così, all’improvviso, il 3 dicembre del 1994 Luisa e io, che non avevamo figli, siamo diventati genitori
Non ricordo che in quei momenti di assoluto smarrimento e di grande dolore avessimo riflettuto; è capitato tutto in modo spontaneo, perché evidentemente, era proprio così che doveva andare. Abbiamo solo seguito l’evolversi delle cose e abbiamo reagito ritirandoci volontariamente dalla vita sociale, rifiutando istintivamente il rumore, il dinamismo e la confusione che fino ad allora ci avevano circondati e che non ci sentivamo più di affrontare. Il forte legame che avevamo con Giorgio e Paola e l’assidua frequentazione reciproca sono stati invece il collante col quale abbiamo costruito il rapporto con i bambini e il nostro nuovo ruolo di genitori. Ernesto e Anna avevano bisogno di un padre e di una madre e questa priorità era inconciliabile con la nostra assoluta dedizione al lavoro così, quando un gruppo di imprenditori si propose per rilevare le attività, io colsi al volo l’occasione e, nel giro di 6 mesi, cedemmo tutte le partecipazioni, dedicandoci completamente ai ragazzi che, piano piano, giorno dopo giorno, hanno ritrovato la serenità…e noi con loro.
Tutti insieme siamo riusciti nell’impresa più bella, quella che nessuna professione potrà mai darti: diventare una famiglia. Oggi mi sento infintamente orgoglioso delle persone che sono e spero tanto che sappiano quanta gioia e quanta ricchezza hanno portato nelle nostre vite.
Dopo anni dedicati soprattutto agli affetti, accetta una nuova sfida professionale, che restituisce all’Italia un marchio storico d’eccellenza: Coin.
Era il marzo del 2017, quando telefonai a Stefano Beraldo, amico e Amministratore Delegato del Gruppo Coin, allora quotato in borsa, che comprendeva, oltre all’omonima catena, anche altre note insegne. Era mio desiderio coinvolgerlo in un investimento immobiliare, dato che avevamo appena realizzato insieme un’iniziativa di successo nel campo della viticoltura. L’ottima intesa che si era sviluppata tra di noi ci aveva lasciato la vogliadi condividere altre nuove sfide. Appena iniziai ad accennargliene m’interruppe dicendo che era lui a volermi proporre un’operazione molto interessante, con un numero ristretto di soci già identificati. Dopo due settimane di silenzio mi arrivò una e-mail, nella quale mi illustrava a grandi linee il progetto: sotto la sua supervisione, un pool di manager di Coin si apprestava a rilevare l’azienda dal fondo internazionale, che presto sarebbe uscito dalla società. Per portare a termine l’acquisizione però era necessario trovare un certo numero di investitori, a parte noi, che partecipassero alla sottoscrizione della quota di controllo. La proposta mi entusiasmava e la sua presenza, insieme a quella di altri imprenditori di successo, non lasciava spazio a dubbi o incertezze.
Ci vollero parecchi mesi per perfezionare l’accordo, vista la complessità e le dimensioni dell’azienda, ma, nel marzo del 2018, si arrivò finalmente alla firma dell’intesa. Quella sera uscendo dallo studio dei nostri professionisti, attraversai piazza V giornate a Milano, in cui ha sede uno dei più importanti store di Coin e mi trovai di fronte la grande insegna illuminata. Il primo pensiero che mi passò per la mente fu molto patriottico: ero orgoglioso di aver contribuito a riportare in mani italiane quel marchio storico che da anni soffriva e non riusciva a trovare più una sua precisa identità.
Il “debutto ufficiale” in società fu la presenza della Coin al Pitti Uomo, nei panni inediti, per un Department Store, di espositore: quella fu l’occasione (da me fortemente voluta, ma appoggiata da tutti i soci) per raccontare agli addetti ai lavori il cambio di marcia che avevamo in mente. Il percorso era stato tracciato nei mesi precedenti, quando avevamo stilato un elenco di aziende di abbigliamento, ma non solo, che non erano mai state presenti nei negozi del gruppo. Mi impegnai in qualità di Presidente a visitarle una a una insieme al GMM (general merchandising manager) e al suo team di compratori per capire le ragioni della loro scelta. Includerli tra i nostri partner era importante e la ricerca di un brand mix più accattivante e in linea con i trend internazionali, ci avrebbe sicuramente aiutato a compiere quel salto di qualità che era indispensabile fare. Per me fu un ritorno a casa: significava incontrare amici vecchi e nuovi, titolari e manager di aziende di successo e convincerli ad avere fiducia nel nuovo progetto.
I rifiuti furono pochissimi e nel giro di un paio di stagioni oltre un centinaio fra i più interessanti marchi sul mercato, provenienti non solo dal settore della moda ma anche da quello della ristorazione, della gioielleria e della casa, entrarono nei negozi Coin. L’aumento delle vendite, in momenti in cui il trend di crescita del settore era negativo, dava ragione al nostro progetto di rilancio, che si confermò come un grande successo, sancito anche dall’apertura di nuovi store su tutto il territorio nazionale.
Il 2020 e l’impatto del Covid sulle vendite al dettaglio.
Era la fine di febbraio 2020 e, insieme ad alcuni miei collaboratori, avevo appena terminato l’ultima visita presso un importante fornitore che aveva accolto favorevolmente la proposta di aprire una serie di corners nei nostri negozi. Eravamo in taxi, quando alla radio annunciarono che nell’hinterland milanese erano stati scoperti alcuni casi di una strana influenza, molto simile a quella riscontrata in una coppia di cinesi ricoverati da gennaio allo Spallanzani di Roma. I toni non sembravano allarmanti, tuttavia l’impressione era che ci trovassimo di fronte a qualcosa di sconosciuto, di cui non erano chiari né le origini né, tantomeno, gli effetti. I dati peggiorarono rapidamente nel giro di alcuni giorni, insieme alle voci sempre più inquietanti su quanto stesse accadendo a Wuhan, in Cina. La situazione precipitò rapidamente e gli incassi dei negozi di Milano crollarono, conseguentemente alla diminuzione del traffico giornaliero dei clienti. Il 9 marzo iniziammo con la chiusura di alcune filiali e il Governo emanò le prime norme che limitavano la libera circolazione delle persone, subordinando le uscite di casa esclusivamente a impellenti e giustificate necessità. Quest’emergenza sanitaria, oltre a creare grandissimi problemi per quanto riguarda la finanza delle imprese, come è facilmente intuibile, ha decretato l’accelerazione e il successo degli acquisti digitali.
Anche la Coin è stata costretta, in quel primo anno di restrizioni, quando l’attività commerciale veniva interrotta a singhiozzo a causa delle varie chiusure, a sviluppare un progetto per l’ e-commerce, che poi si è rivelato estremamente costoso e non profittevole in relazione ai risultati prodotti. Terminata l’emergenza Covid-19, altri fattori esogeni, assolutamente imprevedibili ed estremamente negativi per una grande impresa di retail come la Coin (tra cui la guerra in Ucraina e la crescita del costo dell’energia, l’inflazione e l’aumento sconsiderato dei tassi di interesse), hanno pesato enormemente sulla gestione. Inoltre tutti questi elementi hanno anche cambiato radicalmente le abitudini della nostra clientela: la diffidenza alla frequentazione dei piani alti dei negozi (durante il Covid infatti l’accesso era limitato solo a quelli inferiori), sorta nel periodo emergenziale si è consolidata e pertanto si è reso necessario programmare una riduzione drastica delle superfici di vendita, in particolare nelle filiali sviluppate in verticale, con conseguente riduzione del personale e dell’offerta. Debbo riconoscere che il nostro Ceo (n.d.r. Roland Armbruster), insieme agli altri manager, è riuscito con successo a tenere la barra dritta in un periodo estremamente problematico. Con il ritorno a una pseudo- normalità, e grazie a una serie di operazioni immobiliari fortunate, è stato ricostituito l’equilibrio finanziario e patrimoniale del gruppo; tuttavia ormai il modello del Department store nel mondo (a partire dagli USA per arrivare in Europa) è in profonda crisi a causa del successo dell’e-commerce e, soprattutto, del calo di interesse da parte della clientela più giovane, che è più propensa ad acquistare online e dai rivenditori specializzati.
È quindi indispensabile, se si vuole sopravvivere, rinnovare il business e passando anche attraverso un ripensamento dei format e degli assortimenti. Per quanto mi riguarda, purtroppo ho dovuto subire una serie di interventi chirurgici e una lunga convalescenza, che mi ha costretto a restare chiuso in casa per svariati mesi. Ho deciso pertanto, a malincuore, di passare la Presidenza di Coin a un altro nostro socio (n.d.r.. Marco Marchi, proprietario dei famosi marchi di moda “Liu Jo” e “Blumarine”), cogliendo anche l’occasione per cedere l’intera mia partecipazione. Sono stati anni particolarmente difficili, ma anche sfidanti in cui, ancora una volta, non mi sono mai risparmiato riuscendo, nonostante tutto, a mantenere in salute un’importante impresa italiana…e questo mi riempie di orgoglio!
Alla luce della sua grande esperienza, come imprenditore e come uomo, che consigli darebbe ad Anna ed Ernesto, i suoi figli, e a tutti i giovani che si trovano ad affrontare le sfide di una realtà sempre più complicata e in continuo cambiamento?
Potrei dire loro di essere curiosi, di cercare sempre qualcosa di nuovo, di non arrendersi di fronte agli insuccessi. Ma mi sembrano tutte cose scontate, che ho sentito ripetere e che io stesso ho detto migliaia di volte ai giovani che entravano nel mondo del lavoro. Cerchiamo prima di tutto di ragionare da uomini e questo ci servirà tantissimo anche come imprenditori.
“Nessun uomo è un’isola” ci ha insegnato Hemingway: cerchiamo di non isolarci mai, di condividere il più possibile le gioie e i turbamenti, perché anche il più banale dei gesti che ci viene rivolto e che finora avevamo ignorato, può farci superare l’indifferenza e la solitudine, ritrovando dentro di noi i giusti valori. La paura e la confusione, che spesso ci troviamo a provare quando siamo chiamati a superare prove importanti, sparisce se andiamo con coraggio agli appuntamenti con le vicende della vita. É essenziale agire con serietà, impegno e coscienza, perché solo così sentiremo dentro di noi una forza superiore che ci rincuorerà e ci supporterà, allontanando lo sconforto e dandoci una determinazione e una perseveranza inaspettati, anche se non saremo in grado di arrivare dove avremmo voluto. Nella nostra esistenza e nel nostro lavoro non sempre raggiungiamo tutti gli obiettivi che ci siamo dati perché alcuni traguardi talvolta, sono troppo ambiziosi, oppure richiedono più tempo di quanto ne abbiamo a disposizione e una pazienza infinita per poterli vedere realizzati, ma debbono comunque essere sempre l’orizzonte del nostro vivere quotidiano, rappresentando le nostre aspirazioni e i nostri ideali.
Ragioniamo dunque di sogni, per i quali vale la pena battersi con vigore ed entusiasmo! Cerchiamo di non perdere il nostro tempo a giudicare i risultati e saremo sempre e comunque soddisfatti ogni giorno che passa, perché la migliore immagine di noi stessi non è per forza lasciata da un solco profondo, ma sono spesso le pennellate delicate che lasciano un segno indelebile nella nostra vita, in quella degli altri e, a volte, dell’intera società.